Ubuntu, ubuntu e ancora ubuntu

Un amico, fedele lettore, ci ha segnalato questa storia che pare stia girando su alcuni social. Un antropologo ha proposto un gioco ai bambini di una tribù africana.

Ha messo un cesto di frutta vicino ad un albero e ha detto ai bambini che chi è arrivava per primo, avrebbe vinto il contenuto del cesto colmo di dolci frutti.

Quando diede il via, i bambini si presero tutti per mano e corsero insieme raggiungendo la meta contemporaneamente. Poi si sedettero in cerchio dividendosi la frutta.

Chiese allora perché avevano corso insieme, poiché uno avrebbe potuto aggiudicarsi l’intera posta. Unanime fu la loro risposta: «Ubuntu, come può uno di noi essere felice se tutti gli altri sono tristi?» Ubuntu è un’espressione in lingua bantu che indica «benevolenza verso il prossimo». È una regola di vita, basata sulla compassione, il rispetto dell’altro.

Letteralmente significa «io sono perché siamo».

Quei bambini africani conoscono il segreto della felicità che si è perso in tutte le società che le trascendono e che si considerano società civilizzate.

È una concezione di vita agli antipodi di quella sintetizzata in quel “In God we trust” (Confidiamo in Dio) stampato sui dollari americani.

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